Sono tante le antiche tradizioni che vivono e si tramandano nel Cilento, una delle meno conosciute e’ quella che rappresenta i due miracoli di S. Nicola, che si tiene ogni lunedì di Pasqua nel piccolo Comune di Prignano Cilento detta “Lì Turchi”.
Il testo non risulta scritto ma semplicemente tramandato da padre i figlio tra tutti i Prignanesi.
Teniamo a precisare che non si tratta di un’opera teatrale ma della rappresentazione religiosa di un culto ed una devozione che in questo paese, come in molte altre zone del Cilento, gli abitanti hanno per il Santo.
Nel primo atto viene ricordato il miracoloso salvataggio di Diodato, un adolescente cristiano rapito dai Saraceni. La scena si apre con una tavola imbandita, dove un gruppo di Saraceni (chiamati genericamente “i Turchi”) si accinge a consumare un lauto pasto. A servirli è appunto lo sfortunato Diodato. In più occasioni il “Capoturco” lo provoca, invitandolo ad abiurare la sua religione e ad unirsi all’allegra compagnia. Diodato, però, rifiuta sdegnosamente l’invito, perché intende celebrare con il digiuno la festa di San Nicola di Bari, a cui è molto devoto. All’ennesimo rifiuto, il temibile Saraceno apostrofa duramente il giovane servo : “Ah, sciocco, sciocco! Se San Nicola fosse realmente un Santo miracoloso, verrebbe qui a liberarti dalla nostra schiavitù!”. A questo punto si compie il primo miracolo. Intenerito dalle esortazioni del fanciullo, il Santo invia un angelo a salvarlo, perché lo porti via, volando, lontano dalla schiavitù dei Saraceni, sbigottiti ed increduli per quanto avviene di fronte ai loro occhi. Questo è uno dei momenti centrali della rappresentazione. Un bambino vestito di bianco, appeso con un robusto gancio ad una carrucola che scorre su una fune, “vola” letteralmente dal campanile della Chiesa madre fino al palco dove si trova la tavolata dei Turchi. Diodato si aggrappa all’angelo e viene portato via. È questo il “volo dell’angelo”, che riempie di angoscia e stupore gli astanti, fin quando i due non approdano di nuovo sul campanile della chiesa, con le campane che suonano a festa.
La seconda scena racconta invece un episodio della vita del Santo, quando era ancora vescovo di Myra. Nicola desidera rifocillarsi dopo un lungo viaggio e si ferma in un’osteria. L’oste è un uomo malvagio e senza scrupoli, che non esita a dare in pasto ai suoi avventori tenera carne di bambino, spacciata per “tonnina”. Nicola, però, consapevole del turpe inganno, ordina all’oste di mostrargli il tino dove viene conservata la carne. Non appena la botte viene scoperchiata, quattro bambini escono fuori, vivi e vegeti, ringraziando il vescovo Nicola, che li aveva resuscitati con la forza della preghiera. Scoperto il terribile segreto, l’oste non può evitare la punizione capitale. Viene così condotto da una guardia nel fortilizio della città, per essere bruciato vivo. La scena dell’esecuzione viene riprodotta con l’esplosione dei fuochi d’artificio, seguiti da un lungo applauso liberatorio degli spettatori. L’uccisione dell’oste, che non esito a definire barbara, funge tuttavia da catarsi, come nelle antiche tragedie greche. Il sacrificio del colpevole alleggerisce gli animi degli spettatori, che vengono in tal modo esorcizzati dal male e dalla tentazione.