L’assedio di Sarajevo rappresenta uno degli episodi più drammatici e significativi delle guerre jugoslave degli anni ’90. La città, conosciuta per la sua diversità culturale e religiosa, si trasformò in un simbolo delle divisioni etniche che lacerarono la regione durante il collasso della Jugoslavia. Le forze dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA) e le milizie serbo-bosniache, sotto il comando di leader come Radovan Karadžić, iniziarono l’assedio con l’obiettivo di annettere parti della Bosnia-Erzegovina alla Repubblica Serba, segregando la popolazione bosniaca e croata.
Le manovre strategiche delle forze della JNA (Jugoslovenska Narodna Armija, ovvero l’Armata Popolare Jugoslava) nelle fasi preliminari della guerra in Bosnia ed Erzegovina furono fondamentali per stabilire le basi dell’assedio di Sarajevo e dell’intero conflitto bosniaco. La JNA, un tempo considerata l’esercito di tutta la Jugoslavia, divenne progressivamente un strumento nelle mani della leadership serba, in particolare sotto l’influenza di Slobodan Milošević, il presidente serbo dell’epoca.
Con l’intensificarsi delle tensioni etniche e politiche, la JNA iniziò a schierare massicciamente truppe e armamenti sulle colline che circondano Sarajevo, occupando posizioni strategiche da cui era possibile controllare e attaccare la città. Questo schieramento non era soltanto dimostrativo, ma rappresentava un chiaro segnale della volontà di utilizzare la forza militare per influenzare l’esito delle crescenti rivendicazioni indipendentiste delle repubbliche jugoslave, in questo caso specifico, della Bosnia ed Erzegovina.
Le condizioni di vita a Sarajevo durante l’assedio furono catastrofiche. La città fu costantemente sotto il fuoco dell’artiglieria, e i cecchini serbo-bosniaci bersagliavano i civili che cercavano di svolgere le attività quotidiane, trasformando azioni semplici come attraversare la strada o fare la spesa in potenziali sentenze di morte. La scarsità di cibo, acqua, riscaldamento e energia elettrica aggravò ulteriormente la sofferenza dei civili intrappolati nella città.
Nonostante l’intensa sofferenza e la distruzione, la resistenza dei cittadini di Sarajevo e il loro impegno a mantenere viva la multiculturalità della città furono fonte di ispirazione per molte persone in tutto il mondo. Artisti, musicisti e comuni cittadini organizzarono eventi culturali e manifestazioni di solidarietà, sfidando le circostanze con coraggio e determinazione.
Slobodan Milošević è stato una figura centrale nelle guerre che hanno segnato il collasso della Jugoslavia negli anni ’90. Nato il 20 agosto 1941 a Požarevac, in Serbia, Milošević è salito alla ribalta politica come leader del Partito Socialista di Serbia, distinguendosi per la sua abilità politica e la sua retorica nazionalista. La sua ascesa al potere è stata segnata da discorsi infiammatori che hanno esacerbato le tensioni etniche nella regione, in particolare il famoso discorso pronunciato nel 1989 al campo dei Merli a Kosovo Polje, dove ha evocato il nazionalismo serbo in occasione del 600° anniversario della Battaglia del Kosovo.
Come presidente della Serbia, la più grande e popolosa repubblica della Jugoslavia, Milošević ha giocato un ruolo cruciale nelle guerre di secessione che hanno afflitto la Croazia, la Bosnia ed Erzegovina e il Kosovo negli anni ’90. La sua politica era incentrata sulla creazione di una “Grande Serbia”, un progetto politico che mirava a unire tutti i serbi in un unico stato, anche a costo di ridisegnare le frontiere attraverso la guerra e la pulizia etnica.
Durante la guerra in Bosnia (1992-1995), Milošević è stato accusato di aver sostenuto le forze serbo-bosniache, fornendo loro supporto militare e finanziario. Questo sostegno è stato cruciale per la lunga durata e la brutalità del conflitto, caratterizzato da gravi violazioni dei diritti umani, tra cui il genocidio di Srebrenica nel luglio 1995, dove più di 8.000 uomini e ragazzi bosniaci musulmani furono uccisi dalle forze serbo-bosniache.
Dopo la guerra, Milošević ha continuato a esercitare il potere in Serbia fino alla sua caduta nel 2000, a seguito di massicce proteste popolari contro la sua amministrazione, accusata di corruzione, malgoverno e di aver isolato la Serbia dalla comunità internazionale.
Nel 2001, Milošević fu arrestato e consegnato al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia (TPIJ) all’Aia, accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio per il suo ruolo nei conflitti in Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo. Il suo processo è stato uno dei più lunghi e complessi della storia del tribunale, ma Milošević morì nel 2006, prima che potesse essere emessa una sentenza finale.