Il cesaricidio, l’assassinio di Gaio Giulio Cesare, è uno degli eventi più rilevanti e drammatici della storia romana, evidenziando una profonda frattura nella società e nelle istituzioni dell’epoca. Il 15 marzo del 44 a.C., noto come le Idi di marzo, un gruppo di senatori, vedendosi come custodi dei valori repubblicani, decisero di eliminare Cesare per impedire un ulteriore consolidamento del suo potere personale, che percepivano come una minaccia alla Repubblica e alle sue tradizioni.
La congiura, orchestrata da figure chiave quali Gaio Cassio Longino, Marco Giunio Bruto e Decimo Bruto, rifletteva non solo le tensioni politiche ma anche le complesse dinamiche sociali e personali all’interno del Senato. Molti dei cospiratori avevano legami precedenti con Cesare, sia come alleati che come nemici riconciliati, ma furono mossi da una varietà di motivi, che includevano il rancore personale, l’invidia e la delusione per mancati riconoscimenti o compensi, a unirsi contro di lui.
Questo atto non solo portò alla morte di Cesare ma innescò una serie di eventi che culminarono nella fine della Repubblica Romana e l’ascesa dell’Impero Romano sotto Ottaviano, in seguito noto come Augusto. Il cesaricidio è rimasto nella storia come un esempio paradigmatico di conflitto tra il desiderio di potere individuale e la difesa delle istituzioni repubblicane, riflettendo le profonde divisioni all’interno della società romana e la sua lotta interna per l’identità e la direzione politica.
La scelta del 15 marzo per questo atto non era casuale, ma ricca di significato culturale e religioso, oltre che strategicamente calcolata in base agli impegni militari di Cesare e alle celebrazioni in onore di Anna Perenna.
La festività dedicata a Marte, il dio della guerra, e la celebrazione per Anna Perenna, che simboleggiava il rinnovamento annuale, offrivano un contesto pubblico durante il quale si potevano radunare grandi folle, rendendo più facile mascherare i movimenti e le intenzioni degli assassini. Inoltre, la presenza di gladiatori stanziati da Decimo Bruto nella Curia di Pompeo, ufficialmente per gli spettacoli, potrebbe essere stata una mossa per assicurare una forza armata in caso di necessità durante l’attentato.
E’ Svetonio, in suo scritto a raccontarci come avvenne l’assassinio di Cesare
«Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.
Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.
Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.
I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido